A quale Chiesa pensiamo?

Intervista: A quale Chiesa pensiamo?

«Il nostro obiettivo non è convertire tutti e dominare il mondo, ma testimoniare la grazia della fede»

È inutile fare profezie sul futuro della Chiesa, che da duemila anni si evolve al ritmo del mondo, cercando di interpretare gli insegnamenti del Vangelo alla luce della realtà contemporanea. Per questo don Guglielmo Cazzulani, chiamato a immaginare come sarà la Chiesa del domani, non tratteggia un ritratto preciso, ma indica prima di tutto una parola chiave intorno a cui costruire la riflessione.

don Guglielmo Cazzulani
Don Guglielmo Cazzulani è parroco di Santa Maria della Clemenza e San Bernardo in Lodi dal settembre 2014, dal settembre 2018 è direttore dell’Ufficio Catechistico diocesano, ed è anche docente di Teologia Spirituale.

«Fantasia – afferma il parroco di San Bernardo, seduto dietro la sua scrivania -. Il mondo di oggi non è quello in cui viveva Gesù Cristo. Per tutta la sua storia, la Chiesa si è confrontata con situazioni che non erano le stesse del Vangelo, e quindi le comunità cristiane sono state chiamate innanzitutto ad esercitare quotidianamente la creatività per calare le parole di Cristo e del Vangelo nella società.

I tempi sono mutati, la cultura che ci circonda è mutata, quindi si tratta di chiedersi continuamente: come Cristo vorrebbe che fosse, oggi, la sua Chiesa? Questa è la vera domanda che dobbiamo porci, perché non siamo dei ragionieri che applicano protocolli fissi, ma protagonisti di un’esperienza storica che richiede l’esercizio del discernimento, della comprensione. Possiamo immaginare, ma dobbiamo tenere presente che il bello della nostra esistenza è anche la sua imprevedibilità: prevedere troppo è un rischio».

Non esiste, però, il rischio di appiattirsi su un pensiero dominante che potrebbe portare molto lontano dagli insegnamenti di Cristo?

«Mi viene in mente una storia degli ebrei hassidici, raccontata da un maestro di nome Sussja. Quando moriremo, diceva il maestro, non ci chiederanno perché non siamo stati come Mosé, o come Elia, ma perché non siamo stati Sussja, perché non siamo diventati noi stessi. Così la Chiesa deve cercare di non perdere mai la propria direzione, facendo un’opera di invenzione. Inventare significa creare ma anche, etimologicamente, si rifà al concetto di “trovare”, trovare qualcosa che già c’era. Ogni tempo ha i suoi aspetti positivi e negativi, ogni generazione è tenuta a chiedersi dove sta andando, e la nostra fede ci invita a farlo senza avere paura. Non dobbiamo avere paura della diminuzione delle vocazioni, della secolarizzazione: il nostro obiettivo non è convertire tutti e dominare il mondo, ma testimoniare la grazia della fede che abbiamo ricevuto».

Questa testimonianza come si può declinare nella società contemporanea, che sta vivendo momenti di smarrimento anche a seguito della pandemia?

«La pandemia è proprio un esempio di quello che sto spiegando: se noi avessimo immaginato la Chiesa del futuro due anni fa, se avessimo tenuto il Sinodo diocesano due anni fa, avremmo in mano solo carta ingiallita, perché la pandemia ci ha costretto a ripensare il nostro modo di essere Chiesa. E così accadrà anche in futuro: non esiste un Sinodo definitivo, ma in questo mondo tutto si può migliorare, e una crisi come questa può essere anche un’opportunità. Io sono fiducioso, abbiamo a che fare con le persone, e ciascuno di noi porta dentro di sé, inevitabilmente, un interrogativo religioso, una domanda di senso: nella mia vita, questa domanda si è incrociata con l’esperienza della fede e l’incontro con Gesù, per altri può essere stato diverso. Ma il terreno su cui gettiamo il seme non dipende da noi. Il bello è che per accogliere il Vangelo bisogna essere liberi: non c’è modo di annunciare Cristo se non passando attraverso la libertà. Fortunatamente non siamo più nel Medioevo, quando bastava convertire il re per convertire anche i sudditi. La libertà è il sentiero della Chiesa del futuro, ma forse lo è sempre stata, perché è nella relazione individuale che si costruisce il cristiano: io voglio condividere la ricchezza che ho ricevuto con spirito di fraternità, e se alla fine della mia vita avrò portato anche una sola persona a condividere questo sentiero, avrò fatto il mio dovere».

Come si può calare questa convinzione nell’ottica dell’appuntamento che attende la Chiesa lodigiana?

«La sinodalità è qualcosa che deve contraddistinguere la Chiesa ogni giorno, ma avviare un Sinodo è importante per ribadirlo, per avviare processi di decisione condivisa e sottolineare il ruolo chiave della comunità. La Chiesa, immagino, sarà sempre più laicale, ma questo non basta: bisogna lavorare per avere laici sempre più preparati, e per non perdere la dimensione “parrocchiale”, nel senso di “parà oikia“, presso le case: spero che non manchi mai il rapporto personale tra il parroco e i fedeli, che possano sempre suonare questo campanello per avere una risposta, un aiuto. E poi, ogni azione sociale deve avere un marchio spirituale, perché l’elemento spirituale rimane centrale nella Chiesa di oggi e di domani».

di Federico Gaudenzi

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