Un progetto di condivisione

“Dalle Unità Pastorali alle Comunità pastorali”. Ne parliamo con monsignor Gabriele Bernardelli, Cancelliere vescovile e parroco di Castiglione d’Adda.

Cosa si intende per unità pastorale e in quali termini in questi anni le nostre parrocchie ne hanno fatto esperienza?

L’Unità Pastorale è uno spazio di comunione tra parrocchie di un’area territoriale omogenea, in cui è possibile promuovere una forma di collaborazione organica, configurata e riconosciuta istituzionalmente, quale espressione significativa di pastorale d’insieme, nel tentativo di promuovere un’azione pastorale più efficace per lo stesso territorio. Nella nostra Diocesi la creazione delle Unità Pastorali fu sollecitata più volte dal vescovo mons. Capuzzi. Già nel 2000, nel piano pastorale dal titolo “Si riunirono intorno a Gesù”, il Vescovo ne parlava non solo in termini organizzativi, ma anche – e prima ancora – con criteri teologici. Riteneva che le Unità Pastorali potessero nascere dalla condivisione dei cammini e dei problemi di comunità che abitano lo stesso territorio, mettendo in rete progetti che passano attraverso l’esperienza dello scambio tra presbiteri, religiose, laici impegnati, per giungere all’obiettivo di valorizzare le risorse presenti nella stessa area geografica, nelle singole comunità, a servizio di una realtà più ampia. Il “varo” delle Unità Pastorali nella nostra diocesi avvenne con un provvedimento proprio di mons. Capuzzi del 24 novembre 2002 che, dopo aver precisato di aver coinvolto gli organismi di partecipazione, determinando la configurazione complessiva delle Unità Pastorali, ne pubblicava l’elenco. Alla lettera del Vescovo erano allegati alcuni orientamenti che costituivano di fatto un “direttorio” per la vita e il cammino delle singole Unità, con la precisazione che l’esperienza di collaudo del nuovo assetto, negli anni futuri avrebbe potuto fornire indicazioni ancora più mature.

Monsignor Gabriele Bernardelli
Monsignor Gabriele Bernardelli, Cancelliere vescovile e parroco di Castiglione d’Adda.

La consultazione della Diocesi, compiuta in vista del XIV Sinodo, ha rilevato però che, tranne in qualche sporadico caso, il tentativo di raggruppare le diverse comunità parrocchiali in Unità Pastorali non ha innescato un reale percorso di collaborazione. Le cause sono da attribuire probabilmente alla mancanza di un effettivo e paziente coinvolgimento delle comunità stesse, ma soprattutto alla carenza di un adeguato accompagnamento così pure all’assenza di una necessaria verifica, sicché la scelta delle Unità Pastorali è rimasta più che altro un auspicio più che un reale percorso di riorganizzazione della Chiesa locale sul territorio. D’altra parte non si possono nascondere neppure le resistenze da parte degli stessi sacerdoti, ma certamente anche da parte dei fedeli laici, oltre che alcune difficoltà oggettive che chiedono di essere più attentamente considerate. In ogni caso, l’esperienza non è stata del tutto inconcludente e ci ha offerto la possibilità di fare un passo più deciso, oltre che più urgente, nella direzione di una forma di comunità parrocchiale più aperta e collaborativa sul territorio per far fronte a mutate necessità, ivi compreso il modo diverso di vivere delle persone, le quali trascorrono buona parte delle loro giornate lontane dalla propria residenza.

Come il Sinodo ci interpella rispetto allo sviluppo di comunità pastorali?

Tenendo conto anche dell’esperienza che alcune altre Chiese lombarde stanno sperimentando da alcuni anni, l’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo, frutto – non deve essere dimenticato – dell’ampia consultazione della Diocesi, propone la “creazione” di “Comunità Pastorali” che sono forme di unità pastorale tra più parrocchie, le quali hanno una cura pastorale unitaria e sono chiamate ad un cammino coordinato. La denominazione indica un progetto forte di comunione e di condivisione tra le parrocchie implicate. Appare auspicabile che la loro costituzione non debba essere semplicemente imposta: essa potrà partire da un vero coinvolgimento degli organismi rappresentativi di partecipazione e poi di tutti i fedeli. Sarà necessario garantire presenze e servizi pastorali significativi; valutare, coordinare, accorpare, condividere alcuni momenti, arrivando anche a ripensare in una visione generale il numero e gli orari delle stesse celebrazioni. Se si andrà in questo senso, non è escluso che certe scelte potranno rivelarsi dolorose e non immediatamente e da tutti comprese e accettate favorevolmente, ma sembra essere una necessità improrogabile ed il paziente coinvolgimento aiuterà a superare le diffidenze iniziali, come pure le difficoltà che via via si potranno presentare. Per questo ci si augura di poter agire sull’organizzazione, ma al contempo sulla mentalità affinché si comprenda l’utilità, il senso, ma anche il valore di aprirsi alla prospettiva della condivisione e della collaborazione. Nell’ambito della Comunità Pastorale sembra opportuno auspicare la costituzione – con la gradualità necessaria – di un unico Consiglio pastorale, in cui ciascuna delle singole comunità parrocchiali sia debitamente rappresentata, e di un unico Consiglio per gli affari economici, comprensivo di almeno tre rappresentanti per ogni parrocchia. Il soggetto unitario a cui competerebbe promuovere e guidare l’attività della Comunità pastorale potrebbe essere il “Coordinamento sinodale della Comunità Pastorale (CSCP)”, costituito da un sacerdote Responsabile della Comunità pastorale, che è parroco e legale rappresentante delle singole parrocchie, da altri sacerdoti Vicari della Comunità pastorale, cui viene affidato un ambito specifico e/o il compito di seguire in modo particolare l’attività di una o più parrocchie, ed eventualmente da sacerdoti Residenti con incarichi pastorali (collaboratori pastorali). Entrerebbero inoltre a far parte del CSCP i diaconi nominati Collaboratori della Comunità pastorale, i consacrati e i laici (in particolare i Responsabili o Direttori laici di oratorio). Sarà importante percepire la collaborazione nelle sue diverse forme non come omologazione e dissoluzione delle realtà più piccole in quelle più grandi e quindi più strutturate ed organizzate. Ogni comunità, anche piccola, potrà essere preservata e valorizzata nella sua unicità, individuandone con attenzione le risorse e le specificità da considerare non come un ostacolo all’unità, bensì come una ricchezza per tutti.

I laici e la Chiesa: il percorso conciliare prosegue in quello sinodale?

Senza dubbio. A tal proposito si può dire che il Concilio Vaticano II segni un profondo mutamento nella storia del Sinodo Diocesano. A partire dal concilio di Trento (ma il dato è riscontrabile anche prima), i sinodi e le costituzioni diocesane avevano assunto un prevalente carattere giuridico, come atti legislativi del Vescovo riservati al clero. I sinodi celebrati dopo il concilio Vaticano II non si prefiggono più (o almeno non si prefiggono solamente) di fornire adeguati strumenti giuridici alla vita della Chiesa particolare, ma perseguono anche altri obiettivi: rimotivare la fede della comunità, verificare il suo modo di essere nel contesto storico e sociale, discernere e indicare il cammino da intraprendere. Il Codice di Diritto Canonico del 1983 e alcuni successivi testi legislativi (l’Istruzione della Santa Sede sui sinodi diocesani del 1997 e il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi del 2004) stabiliscono che al Sinodo devono partecipare anche i laici, perché è nella natura della Chiesa che tutti i fedeli diano il loro apporto alle deliberazioni riguardanti la Chiesa stessa. A tal proposito, San Giovanni Paolo II, durante una visita pastorale a Nancy affermava:

“Altra ricchezza del Sinodo diocesano è il confronto di esperienze diverse e la complementarità dei ruoli e dei ministeri nella Chiesa. I laici, uomini e donne, giovani e adulti sono chiamati a realizzare ciò che il loro battesimo e la cresima li abilitano a fare, per lavorare dall’interno alla santificazione del mondo e prendere parte alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Possono capire meglio il carattere specifico del ministero sacerdotale che traduce il ruolo di Cristo, fonte di ogni grazia e Pastore del gregge. I religiosi e le religiose ricordano la disponibilità e la libertà necessarie al Regno, la sua dimensione trascendente ed escatologica. Fra tutti si stabilisce una collaborazione, la cui ricchezza è data da tutti questi contributi e la cui forza deriva dalla loro articolazione necessaria al ministero ordinato del Pastore della Diocesi e dei suoi collaboratori”.

Del resto, per concludere citando ancora il Concilio, già il decreto Ad gentes sottolinea che il Vangelo non può radicarsi nella vita di un popolo senza la presenza attiva dei laici e che la Chiesa stessa non è viva, non corrisponde pienamente alla volontà del Signore se, accanto alla gerarchia, non collabora un laicato autentico. Da ultimo, nel prossimo Sinodo Diocesano, il numero dei laici – interpretando in maniera larga una certa indicazione legislativa – supera quello dei presbiteri e dei consacrati e gli unici (quattro) moderatori dell’Assemblea Sinodale appartengono a questa categoria di fedeli.

di Sara Gambarini

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