La Croce è questione di obbedienza. C’è un dovere, un’esigenza inderogabile che conduce Gesù ad abbracciare il destino tremendo di un patibolo riservato ai criminali, una morte non soltanto dolorosa ma anche infamante: chi guardava Cristo inchiodato alla croce pensava che fosse un delinquente. E la folla ci credeva pure, perché sappiamo come funziona il pettegolezzo: le maldicenze possono anche essere infondate, ma si vendono meglio e impastano la bocca di una grassa e gustosa soddisfazione. Eppure Gesù abbraccia tutto della sua missione, «facendosi obbediente fino alla morte» — che già è tanto — «e a una morte di croce» (così San Paolo nella lettera ai Filippesi 2,8 che ascoltiamo come seconda lettura). Ma obbediente a chi?
Obbediente al Padre, certo. Ma questo significa che il Padre desiderava la morte per il Figlio, e una morte così tremenda? Possiamo davvero chiamarlo “Padre”? Possiamo sì, perché è proprio da Padre che Dio si è comportato nei confronti di tutti noi, con il suo amore così sconfinato da desiderare non una morte atroce ma una vita eterna per ogni essere umano, la guarigione dal peccato e dalla morte, una ferita talmente profonda e infetta da richiedere un Salvatore divino. Gesù è stato obbediente a questo amore, condividendo appieno il desiderio di vita del Padre, al punto da essere disposto ad andare fino in fondo. Ecco quale mistero ci rivela la Croce: un amore unico permea il Padre e il Figlio, e quell’amore è la legge che governa il loro agire. A questo amore Cristo è obbediente, e infatti parla di una necessità stringente: «bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo». Dice «bisogna», perché senza di lui non può esserci guarigione per l’umanità ferita. Ma «bisogna» anche perché quell’amore che scorre tra Padre e Figlio e che li unisce nella volontà di salvezza per noi li costringe al dono totale.
Cristo è dunque «obbediente fino alla morte e a una morte di croce», ma quell’obbedienza non è asservimento ad una volontà altrui: è il richiamo irresistibile del suo amore per noi, in totale sintonia con l’amore del Padre. Un amore talmente divino e travolgente da trasformare la condanna infamante in un dono gratuito, l’accumulo di ferite mortali in un farmaco di salvezza, il ruvido patibolo in un segno a cui guardare con speranza. E comprendiamo allora che quel Crocifisso, il Figlio di Dio innalzato sul legno, rende Santa la Croce, al punto che noi possiamo dedicarle una festa in cui addirittura esaltarla, come facciamo in questa domenica. Nulla di sadico o macabro: solo lo stupore per un amore così grande da trasformare anche il peggio del peggio in un germoglio di speranza.
