In questi giorni, in cui la musica è tornata al centro dell’attenzione, ricordandoci il suo potere vibrante e universale, anche il Vangelo ci consegna le note fondamentali della vita di fede: le Beatitudini. La nota di fondo è quel primo titolo, che ci pare sempre un po’ scomodo, ma che agli occhi di Gesù merita la beatitudine: «poveri». In fondo, le successive non sono altro che variazioni sul medesimo tema: avere fame, piangere, essere esclusi e disprezzati a causa del nome di Cristo, non sono forse particolari forme di povertà? Proprio a chi si riconosce povero si spalanca la beatitudine. Perché poveri, in un modo o nell’altro, lo siamo tutti: ciascuno di noi ha bisogno di qualcosa o di qualcuno. La vera differenza, nel rapporto con il Signore (e con gli altri), la fa la consapevolezza: so di aver bisogno oppure ritengo di essere a posto, di bastare a me stesso? Non può essere salvato chi non riconosce di aver bisogno di salvezza e non si lascia intercettare dal Salvatore.
Ecco infatti che, dopo le beatitudini, vengono i «guai»: Gesù mette in guardia circa i pericoli della ricchezza, la quale non è un male in sé, ma rimane una calamita talmente potente che il cuore rischia di attaccarvisi, dandole la priorità su tutto il resto. Anche perché c’era sempre il rischio di vedere il benessere materiale come premio divino per i meritevoli. Invece la logica delle Beatitudini, come la vista stessa di Gesù, ribalta la graduatoria: agli occhi di Dio, sono i poveri ad avere la priorità. È per loro che Dio si è fatto vicino: per quanti mendicano il pane, le attenzioni, il riconoscimento della dignità, il perdono. Cristo stesso ha scelto di camminare al loro passo, di abitare le loro vite, di irrompere nelle loro fragilità. La melodia delle Beatitudini può essere compresa solo da chi, imitando Gesù, ne fa la colonna sonora della propria quotidianità, mettendo al primo posto gli ultimi.
Sarà bene, allo stesso tempo, evitare un rischio sempre in agguato: quello di dividere il mondo e le persone in buoni e cattivi, luce e buio, beati e perduti. È una catalogazione che ci viene automatica, sia nei confronti degli altri sia verso noi stessi. Eppure, la nostra vita, ciascuno di noi, i nostri cuori non sono mai del tutto da una parte o dall’altra. Ci portiamo dentro beatitudini e «guai», paradiso e inferno, armonie e dissonanze. Ciò a cui siamo chiamati è, anzitutto, riconoscere in noi tali ambiguità, compromessi e incoerenze. Poi, riconosciuto il nostro essere grano e zizzania, affidiamo questa verità al Salvatore: sia lui a discernere, sfrondare, purificare, coltivare, guarire. E magari lo sta già facendo attraverso qualcuno che ci raggiunge con qualche gesto di carità, senza clamore o pubblicità, in punta di piedi, come ha fatto Gesù.
