Nella notte giunge una “buona notizia” per le angosce del nostro mondo

La riflessione del vescovo di Lodi, monsignor Maurizio Malvestiti

L’augurio pasquale all’intera comunità lodigiana parte quest’anno dalla cattedrale, con un’interessante rappresentazione secentesca del Risorto. Secondo una tradizione apocrifa, che lusingò padri della Chiesa e autori spirituali lungo i secoli, Cristo riservò la prima apparizione alla Madre. La scena è colma di serenità, anche se il vigore solenne e al contempo filiale del Crocifisso tornato in vita sembra contrastare la fatica della Madre. Solo corporea, in verità, perché sul suo volto traspare la “certa speranza”, di cui proprio Lei è segno nel cammino verso la pasqua eterna. Sono parole della fede cristiana. Le unisco alla preghiera, con la quale

L’apparizione di Cristo
L’apparizione di Cristo a Maria e alle anime del limbo, Giovan Battista Trotti detto il Malosso, duomo di Lodi

desidero accompagnare il ricordo per la città e l’intera terra lodigiana, senza distinzione alcuna se non spiace, avendo la “fortuna” di esserne il vescovo. È questo per me un convincimento ben motivato, vi assicuro! La Pasqua, domenica delle domeniche e festa delle feste, ci colloca nel cuore di un mistero che resiste nel tempo: quello della vita che dichiara inaccettabili il dolore e il morire e li sanziona con l’annuncio della risurrezione. La vita è sostenuta dal vangelo e da una tradizione, che a cominciare da quanti ebbero esperienza personale e poi ecclesiale del Risorto la incoraggiano a non demordere! È un’illusione? Siamo al credere o non credere, ma comunque vada il percorso di pensiero, di fede o di incredulità di ciascuno, alla coscienza, anche colta, non spiace senz’altro di lasciarsi lusingare da un incontro – magari solamente in sogno – coi soggetti del dipinto di Giovan Battista Trotti, detto il Malosso.

Troppo consono all’umano e alle più intime aspirazioni e nostalgie è lo splendore che quel corpo risorto emana. Troppo consono è quell’abbraccio, che nel dipinto appare promesso più che donato, ma carico di forza comunicata con lo sguardo. Rialzando la Madre, quel Figlio dà prospettiva all’umanità e alla storia. I credenti nel Risorto considerano proprio quella giovane donna di Nazareth la custode della memoria e del futuro più sicuri per tutti. Da lei prese inizio un’umanità nuova, finalmente liberata dal non senso e orientata al pieno compimento dell’amore. La ritengono addirittura Madre del Dio, che si è fatto storia entrando fino in fondo nell’umano a snidarne la radicale debolezza per riportarlo alla “gloria”, che riposa già nell’intimo di ciascuno. Sono considerazioni non nuove ma possono interpellare positivamente l’esistenza se il pensiero ha il coraggio di avvicinarle alle perplessità e alle angosce che sempre ci accompagnano. In esse potrebbero aprire un varco e riaccendere quella ricerca di felicità, che ci piacerebbe trovasse risposte “adeguate”. Illusione? C’è chi dà la vita per questa visione offrendo una testimonianza senza pretese, che non nuoce – ovviamente secondo chi scrive – almeno verificare, magari ricordando che il suo cardine è il principale protagonista del nostro dipinto. Quel Figlio è presente tra noi in ogni espressione di umanità, nella cura per la sua dignità, nella fatica per la tutela della libertà, che è irrinunciabile, per ogni uomo e donna, comprendente l’orizzonte di una fraternità universale.

La Pasqua, però, insegna il realismo. Il senso dell’incompiutezza è molto umano e spinge a camminare, a tentare, a riprendersi, istintivamente. La sua cifra esistenziale è decisiva per capire l’umano. Avvertiamo, infatti, l’incompiutezza nei traguardi, negli altri e – se siamo veritieri – in noi stessi. Perché questa incompiutezza, se non a motivo della percezione di un innato compimento radicato nella mente e nel cuore come qualcosa di irrinunciabile? Sant’Agostino usa questo argomento a riguardo della gioia: “Se tutti amiamo la gioia è perché, in qualche modo misterioso, l’abbiamo conosciuta; se infatti non l’avessimo conosciuta – se non fossimo fatti per essa – non l’ameremmo così” (Confessioni X, 20). Non liberiamoci troppo presto dal credere, ostentando un’emancipazione che non possiamo garantirci. Acuta e vera è la celebre sentenza di Chesterton: “quando gli uomini non credono più in Dio non è che non credano più a nulla. Credono a tutto”. L’ho ritrovata con piacere sulla stampa in una riflessione laica di questi giorni, preoccupata di mettere in guardia dal sapere artificiale e dalla tecnologia indebitamente sacralizzati.

Rimangono il bene e il male, che si contendono l’umano senza un garante. Non raramente si confondono tra loro. Negare il discernimento tra i due non è umano. Come possiamo minimizzare il conflitto tra bene e male? La pace colpita a morte alle porte d’Europa. L’esodo migratorio che riprende drammaticamente. Gli altri incalcolabili problemi dell’umanità. Quanti anche tra noi. Basterebbe il disagio giovanile a convincerci che abbiamo una responsabilità educativa epocale nel dire il bene distanziandoci da ciò che non lo è. Un garante è indispensabile. Che non sia fittizio, però. C’è una “Parola”, una “buona notizia” che forse non è da scartare. Nella notte di pasqua, i cristiani cantano di una pietra, che scartata in partenza è divenuta fondamento su cui edificare. Verifichiamo. Non da lontano. Avviciniamoci. Tendiamo la mano per primi. Scambiamoci le migliori aspirazioni. Condividiamo la fatica del vivere e del pensare, credendo e costruendo insieme una convivenza rispettosa e solidale. E sarà risurrezione e pace per tutti.

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