Commento al Vangelo della Domenica

“Afferrando la Stella che rischiari il cammino”

a cura di don Stefano Ecobi

don Stefano EcobiIl commento al Vangelo domenicale, disponibile da ogni sabato precedente, a cura di don Stefano Ecobi, presbitero della Diocesi di Lodi.

 

 

 

21 aprile 2024 – IV Pasqua (Anno B):  Il buon pastore e noi

Il buon pastore e noi

Gesù presenta se stesso come «il buon pastore», cioè il pastore ideale, quello di cui le pecore hanno bisogno, contrapposto alla figura del mercenario che, invece, è da lui caratterizzato negativamente. Ma come si riconosce il pastore buono dal mercenario? È Gesù stesso a precisarlo, elencando una serie di azioni che lo caratterizzano.

«Dà la propria vita»: per ben tre volte viene ripetuta questa espressione. Il buon pastore non si risparmia, non trattiene per sé, né considera il gregge come un patrimonio su cui speculare o una merce da consumare fino all’esaurimento. Il buon pastore, a differenza del mercenario, è disposto a rimetterci del suo per il bene delle pecore, fronteggiando il lupo che le minaccia. E questo perché egli considera “sue” le pecore, gli stanno a cuore.

E infatti: «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». C’è una relazione di conoscenza autentica, di appartenenza reciproca, in cui le pecore sono “del” pastore (gli «appartengono», le chiama «mie»), ma anche il pastore è “delle” pecore, è tutto dedito a loro, al punto — come si è detto — da essere disposto a dare la vita per loro. Il modello di questa relazione, ci dice Gesù, è il suo rapporto con il Padre: Cristo, buon pastore, conosce ed è conosciuto dalle pecore «così come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Questa precisazione libera il campo da ogni possibile fraintendimento in cui potremmo cadere travisando i toni “possessivi” utilizzati da Gesù: noi siamo “suoi” come lui è “del” Padre, in un possesso fatto di reciprocità e dedizione, non di sfruttamento o di oppressione.

Infine, il buon pastore opera una trasformazione sulle pecore: il suo essere tutto per loro e considerarle affettuosamente sue ha un effetto forte su di esse, una vera e propria conversione, perché da pecore le rende gregge, radunandole e raccogliendone in unità. C’è però una condizione, ossia l’ascolto: «Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». Gesù parla all’indicativo futuro, presentandoci come automatico il passaggio dall’ascolto al diventare gregge. Il rischio in cui possiamo cadere è di pensarci già trasformati senza passare per l’ascolto: non si diventa e non si rimane gregge senza la voce del pastore, non si può pensare di costruire e di mantenere una vera unità prescindendo dall’ascolto di Gesù.

Cominciamo, allora, ascoltando la voce del pastore che ci arriva proprio in questo brano di Vangelo. Lasciamoci provocare dal modo in cui Gesù, in modo diretto e quindi sorprendente, si dichiara tutto dedito a noi. Guardiamo a quei possessivi affettuosi con cui egli ci qualifica come “suoi” e si presenta come “nostro”. E rimaniamo innestati in questa reciprocità, per darle corpo nella vita quotidiana, personale e con gli altri.

Don Stefano Ecobi


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